Qualche tempo fa ero al mare insieme a mia moglie, in una meravigliosa baia della Sardegna, di quelle ancora un po’ selvagge, piene dei colori e dei profumi della natura. Mentre ci godevamo un buon caffè e una vista da togliere il fiato in un chioschetto fatto di tavole di legno, venne a sedersi accanto a noi una giovane mamma con un bambino di circa un anno. Il piccolo aveva degli occhi neri vivacissimi e curiosi e nello stesso tempo tranquilli e fiduciosi. Stava in piedi scalzo e, stringendo con le manine paffute il dito della madre, sperimentava con entusiasmo il piacere di stare in piedi, abbozzando i suoi primi piccoli, ma decisi passi.
Mi colpì il fatto che la madre, tranquilla e sorridente, gli consentisse di stare scalzo su uno strato di quell’erba secca e profumata tipica della macchia mediterranea, bellissima, ma anche piuttosto spinosa e abitata da un brulicare di insetti di ogni tipo. Un tappeto insomma poco adatto per le nostre delicate pelli cittadine, figuriamoci per i teneri piedini di un bambino alle prime esperienze di vita. Ma era proprio quello il punto che la giovane madre aveva colto: è proprio attraverso le prime esperienze sensoriali che si costruisce il patrimonio di conoscenze e si attiva lo sviluppo cognitivo del bambino.
Ed è dai messaggi associati, anche non verbali, che trasmettiamo al bambino, che viene dato un significato a ciascuna esperienza. La nostra mente, infatti, per una questione di sopravvivenza della specie, analizza ogni sensazione visiva, uditiva, olfattiva, gustativa e tattile, cercando di categorizzarla ed etichettarla come buona/cattiva, innocua/pericolosa, piacevole/dolorosa, permessa/vietata. Per far questo utilizza i ricordi disponibili di un’esperienza analoga e delle emozioni ad essa associate: piacere, serenità, gioia, o fastidio, dolore, tristezza, ansia, paura, rabbia. Nel caso di un bambino, quando ancora non vi sono esperienze pregresse su cui basarsi, la mente cerca degli indizi osservando le reazioni degli adulti che si prendono cura di lui o degli altri bambini con cui entra in contatto.
Le esperienze dei primi anni sono quindi fondamentali per determinare l’idea che il bambino si farà del mondo in cui vive: ricco di opportunità da affrontare con entusiasmo o pieno di pericoli dai quali continuamente guardarsi. Due esempi illuminanti di tutto questo ci sono stati offerti appena tornati sotto l’ombrellone. Proprio davanti a noi, emergevano dalla sabbia delle rocce di granito basse e arrotondate dal vento, come a formare una catena montuosa in miniatura che, essendo piuttosto estese, richiedevano un minimo di attenzione per essere attraversate. Tra i tanti bagnanti che vi passavano sopra, mi colpì una giovane donna sui 30-35 anni che teneva per mano una bambina bionda, dai capelli lunghi, dell’età più o meno di 3 anni, che verosimilmente doveva essere la figlia. Giunte in prossimità delle rocce, con una tranquillità e un’intesa che mi lasciò piacevolmente sorpreso, la donna si staccò dalla bambina e con un sorriso sereno e rassicurante iniziò ad attraversare per proprio conto le rocce, lasciando che la figlia facesse lo stesso autonomamente. Dopo qualche attimo di esitazione, la bambina scelse il passaggio per lei più congeniale e, dopo aver attraversato gli scogli con i suoi passetti un po’ traballanti, raggiunse la madre che la aspettava tranquilla e sorridente, per proseguire poi insieme mano nella mano il loro cammino. Subito dopo, un altro bimbo più o meno della stessa età, con un’aria da Indiana Jones cercava di scalare la “vetta” più alta della catena montuosa in miniatura, immaginando chissà quali avventure.
Ma invece di ammirarlo e sostenerlo per il suo coraggio, il padre da sotto l’ombrellone continuava ad apostrofarlo gridandogli a gran voce una serie di “NICO’ CADI!”, “TI HO DETTO DI VENIRE QUI!”, “QUANTE VOLTE TE LO DEVO DIRE!”, “CADI, TI FAI MALE, VIENI QUI!”. Il povero bambino alla fine si arrese e con una faccetta triste e rassegnata si andò a raggomitolare sotto l’ombrellone. Quel “NICO’ CADI!”, certificato così autorevolmente dal genitore, è sicuramente andato a plasmare una parte importante dell’immagine che il bambino avrà di sé. E la paura (se non la certezza) di cadere, con buone probabilità riemergerà nella sua vita ad ogni tentativo di scalare, metaforicamente, qualche montagna. Ci possiamo chiedere che cosa distingue i due genitori: uno vuole più bene al figlio rispetto all’altro? O uno è un miglior genitore rispetto all’altro? Direi che il primo genitore è stato soprattutto più consapevole dell’altro.
La madre della bambina era infatti completamente presente e cosciente di quello che stava facendo e aveva rapidamente valutato i rischi e i benefici che comportava il lasciare che la bimba trovasse da sola la sua strada. Il padre del bambino era invece distratto da altre cose e aveva automaticamente considerato solo il rischio immediato che il bambino potesse farsi male, senza nemmeno pensare di valutare le conseguenze a lungo termine delle sue parole e del suo atteggiamento sulla personalità del bambino, e in particolare sulla sua sicurezza e autostima.
Come ciascuno di noi, questo padre avrà in buona parte appreso dai propri genitori e/o dai propri nonni il modo di comportarsi con i figli, probabilmente non mettendone in discussione la validità e subendone esso stesso le conseguenze, in una catena che può essere interrotta solo diventandone consapevoli. È anche molto probabile che la maggior parte di noi avrebbe agito come quel padre. In fondo quello di proteggere i figli e impedire loro di farsi male è un preciso compito dei genitori. E per far questo pensiamo che il modo migliore sia quello di trasmettere loro in qualche modo le nostre paure. Il problema è che non è facile comprendere quanto queste paure e questi pericoli siano davvero reali o piuttosto frutto dei nostri personali condizionamenti, delle nostre sconfitte, delle nostre ferite.
Un modo per comprenderlo è iniziare ad essere più consapevoli dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, osservandoli con comprensione e compassione, ma anche con il giusto distacco. Ed è la cosa più importante che possiamo iniziare a fare, per il bene nostro e di chi abbiamo intorno.
Qui ed ora.